Il Bosco: Una Miniera Verde
Il bosco è stato sempre considerato una “miniera verde” da cui ricavare molti prodotti utili: legna da ardere, carbone, legname da costruzione. Anche in Alta Valle Seriana il boscaiolo era espressione e testimonianza dell’antica anima di una comunità: oggi sono rimasti in pochi, una volta contrade intere vivevano nel bosco e del bosco. Con loro c’erano anche i carbonai, che ogni anno perpetuavano l’antico e misterioso “rito del poiàt”.
Spesso questi uomini dovevano stare per mesi e mesi nel bosco: il loro alloggio era una baracca fatta di rami e cortecce, il loro cibo la polenta e poco d’altro. Il tempo era scandito dal cielo: lavoravano dai “stèle ai stèle” (dalle stelle alle stelle), anche quattordici ore al giorno.
Ogni boscaiolo aveva i propri attrezzi del mestiere che portava sempre con sé, anche quando capitava di lavorare all’estero. Il taglio degli alberi avveniva solo con la scure; poi si tagliavano dal tronco i rami con lo “sgùròt”.
Macchina per La Resina
Un altro mestiere legati al bosco era quello del “rasì”, colui che si occupava della produzione e lavorazione della resina. La si raccoglieva a fine estate, veniva fatta bollire in pentoloni e, ancora calda, la si versava nella “machina de pòrga la rasa”, una macchina per purificare la resina fluidificata. Così purgata veniva utilizzata per preparare prodotti medicinali e colle, mentre i bambini le davano fuoco per farla colare e poi masticarla.
Trasporto del Legname
In autunno i tronchi dovevano essere portati a valle. Per brevi tratti venivano trascinati dagli stessi boscaioli, per tragitti più lunghi si usavano muli e cavalli o si facevano scorrere nelle “sòènde” (canali fatti con i tronchi stessi) e nei “trinai” (canali ricavati nella neve).
La legna da ardere si trasportava a spalle, con i muli oppure con i fili a sbalzo. Un grosso filo metallico veniva teso tra due punti (detti stazioni) a diverso livello; vi si appendevano i tronchi con carrucole e li si faceva slittare per gravità a fondo valle.
Il trasporto del carbone invece era affidato ai “portì”, donne e ragazzi che si caricavano sulle spalle grossi sacchi anche del peso di un quintale. Non venivano utilizzati muli o “preàle” (slitte) per evitare che il carbone potesse rompersi o sminuzzarsi, perdendo quindi in peso ed in valore.
Il “Poiàt”
Liberato il bosco dalla legna grossa, era il turno dei carbonai. Al centro di uno spiazzo pianeggiante si piantava un palo alto circa 2,5 metri e attorno si sistemavano dei pezzi corti di legna, costruendo una sorta di camino quadrato. Intorno a questo venivano appoggiati, leggermente inclinati, rami e tronchi, creando diversi strati più sottili verso l’esterno. Il cumulo di legna veniva infine ricoperto di foglie e terra.
A questo punto si toglieva il palo centrale e il “poiàt” era pronto per far carbone.
Lo si accendeva gettando della brace nel foro lasciato libero dal palo; poco alla volta venivano introdotti dei piccoli rametti per alimentarla, poi si chiudeva il foro con una zolla, tracciando una croce sulla sommità. Iniziava così la fase della cottura: la brace pian piano saliva lungo il foro centrale, poi la legna cominciava a carbonizzare espandendosi lateralmente. La durata media di un “poiàt” era di sette giorni ed andava continuamente monitorato.
Dopo due giorni si iniziavano a fare dei piccoli sfiatatoi partendo dall’alto. Quando da questi usciva del fumo turchino significava che il carbone era fatto, perciò si tappavano e se ne facevano altri più in basso, sino a giungere a terra.
Infine, facendo attenzione che non prendesse fuoco, si cavava il carbone.
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